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Francesco Bellofatto
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‘I AM’: Al Blu di Prussia il viaggio intenso e sospeso di Erwin Olaf in Mostra a Napoli
La galleria Al Blu di Prussia (via Gaetano Filangieri, 42 – Napoli), lo spazio multidisciplinare diretto da Giuseppe Mannajuolo e Mario Pellegrino, inaugura la stagione espositiva 2024-2025 con la mostra “I Am” di Erwin Olaf, a cura di Maria Savarese. La mostra rappresenta la prima occasione per il pubblico di Napoli di scoprire il lavoro del celebre fotografo olandese, scomparso prematuramente nel 2023.
Grazie alla collaborazione con lo Studio Erwin Olaf e la galleria Paci Contemporary, la Fondazione Mannajuolo presenta una selezione delle opere più significative di Olaf, che spazia dagli anni 2000 fino al 2020, includendo alcune delle sue serie più iconiche: Royal Blood (2000), Rain (2004), Fall (2008), Grief (2008), Dawn (2009), Keyole (2012), Hamburg (2014), Shangai (2017), Indochine (2017) e Palm Springs (2018). Questa esposizione testimonia il percorso artistico di Olaf, in cui il fotografo ha portato la fotografia a un livello di complessità estetica che lo ha reso celebre a livello internazionale.
Erwin Olaf, ritrattista ufficiale della famiglia reale olandese e designer della moneta nazionale per il re Willem-Alexander, ha esposto nei musei più prestigiosi del mondo, come il Rijksmuseum e lo Stedelijk Museum di Amsterdam, il Museum Ludwig di Colonia e il North Carolina Museum of Art negli Stati Uniti. Nel 2025, Olaf sarà protagonista della sua prima grande retrospettiva pubblica presso lo Stedelijk Museum di Amsterdam.
In mostra, oltre alle fotografie, saranno proiettati nella sala cinema della galleria sei lavori di video arte realizzati da Olaf fra il 2003 e il 2020, esplorando ulteriormente il suo linguaggio visivo unico.
Maria Savarese, curatrice della mostra, descrive Olaf come un artista che, a partire dagli anni ’80, ha trasformato il proprio stile “da un attivismo visivo documentaristico e provocatorio” a una fotografia più riflessiva e tecnicamente elaborata, con uno sguardo rivolto all’arte antica olandese. Nelle sue opere, Olaf crea un’atmosfera sospesa, cinematografica, in cui i protagonisti sembrano perennemente in attesa, come personaggi hopperiani colti tra assenza e presenza.
Dalla presentazione di Maria Savarese
“I can’t do better than this, this is who I am, this is who I was”.
Erwin Olaf
La Fondazione Mannajuolo è lieta di presentare, per la prima volta a Napoli l’opera del fotografo olandese Erwin Olaf, scomparso prematuramente nel 2023.
La mostra, dal titolo I Am, realizzata in collaborazione con lo Studio Erwin Olaf e la galleria Paci Contemporary, aggiunge un tassello importante all’ampio mosaico di esposizioni organizzate negli ultimi anni dalla Fondazione, dedicate ai grandi autori della fotografia contemporanea.
Nato a Hilversum nel 1959 e trasferitosi presto ad Amsterdam, Olaf si laureò alla scuola di giornalismo di Utrecht con l’intenzione di diventare un fotografo documentarista, ottenendo nel 1984 il suo primo lavoro per la rivista “Vinyl”, un reportage sulla vita notturna di Amsterdam e sulla comunità gay.
In questi anni, determinante per lui fu l’incontro con Hans van Manen, noto coreografo e fotografo olandese, allievo di Robert Mapplethorpe, che influenzò profondamente la sua ricerca artistica. Dai primi scatti, fino alla serie Chessmen pubblicata da “Focus Amsterdam” nel 1988, con cui ricevette il premio Young European Photographer of the Year, i suoi riferimenti furono oltre Mapplethorpe, anche Weegee, Witkin, Helmuth Newton, Candida Hofer, Andreas Gursky ed altri esponenti della Scuola di Dusseldorf, insieme a quella fotografia di moda che da Platt Lynes, arrivava fino a Horst.
Fra gli anni ottanta e novanta, Olaf iniziò ad orientare l’“attivismo visivo” documentaristico e provocatorio degli esordi – così come lo ha definito Shirley den Hartog, sua storica collaboratrice ed oggi alla guida dello Studio – verso una visione della fotografia più riflessiva, pensata, tecnicamente costruita, realizzata sempre in interno, evidente già in Royal Blood. Con questo lavoro, non solo volle dimostrare quanto ormai la sua indagine fotografica fosse indirizzata altrove, ma soprattutto come le recenti scoperte di nuove modalità tecniche, ad esempio photoshop, fossero artefici di inedite possibilità espressive.
Le opere esposte qui Al Blu di Prussia, realizzate dall’inizio degli anni duemila, fino al 2020, sono tratte dalle serie Royal Blood (2000), Rain (2004), Fall (2008), Grief (2008), Dawn (2009), Keyole (2012), Hamburg (2014), Shangai (2017), Indochine (2017) e Palm Springs (2018) e rientrano in questa fase di sopraggiunta consapevolezza artistica.
In esse la scena è diventata più complessa, la costruzione dei set ha assunto toni cinematografici con specifici riferimenti agli anni cinquanta, in particolare ad autori come Visconti, Pasolini e Fellini, o più di recente, al David Lynch di Twin Peaks, o ancora a serie come Mad Men, l’atmosfera delle immagini viene permeata da un senso di sospensione del tempo, dello spazio e delle emozioni dei protagonisti, personaggi hopperiani, enigmatici, spesso solitari, sospesi in una dimensione di perenne attesa, fra assenza e presenza.
Le inquadrature sono tecnicamente perfette, la luce sembra scolpire le figure, niente è lasciato al caso: dall’ambientazione degli interni, agli abiti, a tutti i dettagli che compongono la scena, di fronte alla quale l’autore invita sempre l’osservatore a spingersi oltre l’apparenza.
Affrontando temi come l’ipocrisia, la violenza, il dolore, la solitudine, egli afferma “It’s not that I want to photograph unhappiness, but I want to photograph emotions I actually feel and life can be unconfortable. I want you to come into my exhibition with a certain mood and come out with a different one – possibly enriched”.
L’opera matura di Olaf è intrisa di riferimenti colti, innanzitutto alla tradizione pittorica olandese. Quando, infatti, nel 2003, il Rijksmuseum organizzò una retrospettiva dedicata alle xilografie e ai disegni di Hendrick Goltzius, fra i protagonisti dell’arte del XVI secolo, fu solo lui ad essere invitato a parlare del suo lavoro di artista visivo nell’epoca contemporanea.
Dall’arte rinascimentale deriva, innanzitutto, la sua predilezione per generi come il ritratto, la natura morta, l’interno con figure – queste ultime tratte a volte dal repertorio mitologico o allegorico, anche solo nella scelta dei nomi, come Hope ad esempio – insieme a quel soffermarsi sugli aspetti descrittivi del corpo, pelle, muscoli, gesti, dietro ai quali intercettare la sfera emozionale e sentimentale della condizione umana.
Analogo discorso per il particolare utilizzo della luce, catturata, manipolata e piegata alla volontà della propria cifra stilistica, che deriva dalla conoscenza di altri protagonisti dell’arte classica, quali Cornelis van Harlem, Johannes Verspronck, Jan Mostaert, Pieter Saenredam, Joannes Vermeer e, non ultimo, Rembrandt.
Le fotografie di Erwin Olaf raccontano storie e riflettono sul senso del tempo. Quello che intercorre fra eventi presunti, come in Keyole, ad esempio, serie ambientata negli anni ’30, in cui l’atmosfera è appunto quella di un’attesa e di una sospensione inquietante, dove si percepisce che qualcosa non va nella famiglia ritratta, anche se apparentemente non succede nulla. In Rain, invece, il racconto, stilisticamente permeato di riferimenti al pittore e illustratore Norman Rockwell, trova il suo apice narrativo in quell’istante che intercorre fra azione e reazione.
Fra il 2017 e il 2018, Olaf crea la trilogia sulla città: Berlino, Shanghai, Palm Springs. Una personale indagine sul concetto di metropoli in cui, nella prima, evidenti sono i riferimenti ad Otto Dix, amato soprattutto per la sua capacità di coniugare la dimensione documentaristica con quella teatrale, mentre in Shanghai l’interesse è rivolto agli adulti ed ai giovani cinesi, sottoposti quotidianamente ad uno stress alienante, vivendo in una città così in rapida evoluzione.
Con Palm Springs ci si trova di fronte ad un nuovo punto di svolta della sua ricerca.
Approdato nella città californiana per un workshop di quattro giorni nell’ambito del Palm Springs Photo Festival, dopo quindici anni di lavoro in studio, in cui tutto veniva maniacalmente studiato e controllato, decise di scattare interamente in esterno.
Sicuramente fu molto colpito da questo luogo, sviluppatosi fra gli anni cinquanta e sessanta, collocato nel bel mezzo del deserto, senza una storia radicata, caratterizzato da marcate contraddizioni socio – economiche di cui aveva già letto nei libri di Walter Mosley. Questo scenario contraddittorio viene descritto molto bene in una delle foto esposte in galleria, dove una madre e la sua bambina sono ritratte durante un picnic all’aperto, ma ai margini di un parco eolico.
Nel 2019, in occasione dei suoi sessant’anni, viene pubblicata la monografia dedicata all’intero lavoro fotografico di Olaf, I Am, in concomitanza con l’antologica ospitata nello stesso anno al Rijksmuseum di Amsterdam, che già aveva acquisito in precedenza un nucleo di sue 500 opere.
Sfogliando le pagine di quel libro, concepito come un diario personale della sua intera esperienza artistica, si comprende pienamente quanto Erwin Olaf sia stato e sarà per sempre il cantore della libertà, del desiderio, dell’uguaglianza sociale, sessuale, individuale, dell’inclusione, dei corpi altri, della disinibizione, della critica sottile e colta all’ipocrisia sociale, e soprattutto quanto il senso della sua opera e della sua intera vita possa essere sintetizzato in un’unica affermazione: “I exist in freedom, therefore I am.”
Maria Savarese
ERWIN OLAF – I Am
Dal 15 novembre 2024 al 28 febbraio 2025
Orari: martedì-venerdì 10.30-13/16-20; sabato 10.30-13
Brochure a cura di Art Studio Paparo
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